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Racconto di Giulio Casale

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Accommiatandosi dalla Milano più impresentabile, e sconosciuta. Abbracciando per l'ultima volta e il pollaio e la porcilaia materna, sud della città suddetta: la più indecente delle città d'Italia. Lo sguardo rivolto a Nord, verso il suo centro, s'è rimesso dopo quasi vent'anni l'abito buono, scarpe di vernice, cravatta. Ha trascorso tutto questo tempo a tentare di perderlo, il tempo, frequentando solo pensionati alcolizzati che con pochi ricordi mo-nopolizzano la conversazione nei pomeriggi d'osteria, un giovane allevatore di struzzi, rea-ding di poesia dialettale, mostre personali con fiori che confermano il fallimento dell'arte, non solo in periferia, inserendo pacchi di monetine nelle macchinette mangiasoldi che an-che in questi bar son poi arrivate. Aveva chiuso, finito, dato vita a un ritiro totale là dove tutto era cominciato: l'infanzia, la scuola, la coscienza. Ora deve tornare. I suoi occhi negli ultimi giorni parlavano di commissioni urgenti, sua sorella, vita o morte. È in cortile, sui sassi, in mano una valigetta di pelle. Si volta, si cerca riflesso nel vecchio specchio opaciz-zato affisso da sempre all'esterno dell'attrezzeria. Si sistema un poco, passa i polpastrelli sulle sopracciglia, con il palmo della sinistra controlla la rasatura sulle guance, gli zigomi, il mento. Poi passa la valigetta in quella stessa mano e con la destra aggiusta ancora il nodo all'anticacravatta paterna: saggia lo jacquard stampato, seta finissima, forse ancora lariana, ripercorre i processi necessari per ottenere quel capolavoro di morbidezza sensuale: tintu-ra, essiccazione, spianatura, vaporissaggio, lavaggio, finissaggio, cose che sapeva bene, quasi dimenticate. Finalmente si scosta, unisce le scarpe in una sorta di "attenti!", ripassa la valigetta nella destra: è pronto. Esce. Mendicanti finti, ladri, urla dal cielo e dai tombini, prostitute e travestiti, pitoni sui poggioli (in piena digestione), usurai, spacciatori: la proces-sione quotidiana, il paesaggio. E lui lì, solo, all'apparenza neanche adesso minimamente coinvolto, cammina perpendicolare al suo destino, al ritorno. E ad ogni passo forse gli pare di raschiare via per sempre l'ottusità, la miseria di quelle strade, farle redente, mettere rami e fogliame su tetti che da stagioni immemori non vedono uccelli, né migrazioni, nettare ogni angolo dai rifiuti d'amore, dagli avanzi di gioia, imballaggi di coppia, famiglie. Forse ha vi-sioni di volti struggenti, sua madre, un'altra Maddalena, e intanto scrosta ogni muro dai co-lori di slogan avveniristici, tappa le pensiline degli autobus, ostruisce le discese del metrò, spegne a distanza gli orologi digitali sui tetti, che dicono il caldo esatto, l'implacabile calen-dario. Lui, scena anacronistica, dritto verso il suo dovere. E poi, oh, piega a sinistra ora, guarda: taglia. Taglia traverso il campo seminato a soia, di certo sporca un poco le scarpe, i pantaloni con la riga. Di qua lascia un'altra volta la penuria, gli affari loschi, il sudiciume. Davanti a lui giusto alla fine del campo la città vera, la strada dei ricchi, dell'astrazione. E per tutti, dentro, ovunque, la stessa insaziabile fame.

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